Quarantena, espressività e prossemica: storie di umani e quadrupedi

Quarantena, espressività e prossemica: storie di umani e quadrupedi

di Emanuela Macelloni

Della nostra famiglia fanno parte anche un cane ed un gatto. Nello specifico il racconto riguarda la seconda bestiola della famiglia di nome “Ungaatto”. Sì, si chiama proprio così. Soprannominata tra l’altro “Unga”.

Ora, noi viviamo in una villetta, quindi il gatto di giorno se ne va serenamente in giro insieme ai compari del quartiere.

La brigata felina è composta da almeno tre componenti fissi oltre ad Unga, più qualche sporadica apparizione di altri elementi non costanti.

C’è un tigrato che le assomiglia parecchio (ma decisamente più corpulento) che abbiamo soprannominato “Dabliu”, italianizzazione dello spelling inglese della lettera “w”. Il soggetto in questione ha infatti occhi piccoli e stretti, in cui abbiamo riconosciuto una certa somiglianza a “George W. Bush”. Di gran lunga il migliore amico di Unga.

Poi c’è “Bianchino”, che è un tigrato un po’ sbiancato, un colore strano e non definibile. Come il suo carattere, più schivo e meno appariscente.

Ed infine c’è “Alastor Moody”, dal personaggio di Harry Potter con l’occhio di vetro, perché al gatto in questione manca appunto un occhio. Con lui Unga pare avere un rapporto di odio/amore.

I quattro se ne vanno liberamente a zonzo per il quartiere dell’altopiano, in barba alla quarantena imposta ai loro conviventi umani. In questo periodo sembrano poi essersi impadroniti del parco di villa Dho. Li vedo inoltrarsi quotidianamente nel sentiero che porta alla boscaglia e poi ne perdo le tracce, dietro al cancellone che per tutti noi resta rigorosamente chiuso. Abbiamo ipotizzato che vadano a tendere agguati ai ranocchi.

Di solito all’ora di cena “Unga” se ne torna in casa. A volte spontaneamente. A volte richiamata da noi. Per chiamarla a parte urlare sulla soglia di casa “Uuuungaaaaa” o “Gaaaattoooo” alternando i due vocalizzi, usiamo una specie di canna da pesca con un topo di corda appeso sul fondo che, sbattuto per terra, fa un rumore tipo “stuuump” o “stoooop”, a seconda di come lo sbatacchi: lei riconosce quel suono e diligentemente rincasa.

Quindi quello che dovete immaginare ora è un essere umano sulla soglia di casa, di fronte alla strada dove passano altri esseri umani e non, che con questa specie di canna da pesca la sbatacchia per terra urlando “Ungaaaaaaaa” e “Gaaaattoooo” alternati a “stuuump” e “stooop”.

Ieri sera la buzzurra non ne voleva sapere di rientrare e più volte ho dovuto ripetere la procedura del richiamo, pure un po’ preoccupata come solo gli affidatari di bestiole domestiche sanno fare. Tra un “ommioddioooocosalesarasuccessoooo” o un “nontorneramaipiuuuu” e l’altro.

Eh, lo so che chi non ha bestiole non può capire questo moto di amore e pensa che siamo decerebrati… Ma tant’è, anche quando ti sforzi di trattarli da animali, quali appunto sono. Senza sminuirne affatto il valore.

Comunque… Ad un certo punto ero ritta e fiera sulla soglia appunto. Acconciata da quarantena. Ovvero: calzini bianchi (senza scarpe né ciabatte), tuta sdrucita, felpa scolorita e slabbrata tipo sacco che arriva a metà gamba, faccia decomposta e capelli senza indirizzo. E con la mia cannetta sbatacchiata richiamavo la bestiola.

Passa a quel punto una famiglia di tre componenti mascherati: madre, padre e figlia accompagnati alla passeggiata da un fido al guinzaglio. Perché è chiaro che il virus ha capovolto il senso di chi oggi autorizza formalmente l’uscita: oggi è fido che porta a spasso il padrone umano.

I tre guardano, passando, giardino e casa: la mia. Non è una cosa che amo molto, anche se non avendo voluto una siepe è del tutto normale che la gente guardi dentro casa nostra. Devo farmene una ragione…

Ma siccome lo sguardo era un po’ insistente io cominciavo a spazientirmi.

Soprattutto il padre mascherato col fido al guinzaglio indulgeva con lo sguardo un po’ troppo per i miei gusti. E poi quelle dannate mascherine hanno un problema fondamentale. Tolgono l’espressività ai volti. Lo avete notato? Se sei abbastanza vicino da vedere gli occhi riesci a capire cosa sta dietro quello sguardo, quali pensieri si fanno strada dietro alle finestre che abbiamo sul mondo. Ma se sei lontano no, perché quello che usi normalmente per comprendere lo stato d’animo in questo caso di maggiore distanza è l’intera espressione che prende forma sul volto ed in particolare nella sua parte inferiore, che però oggi è nascosta dalla tela della mascherina.

Questo virus ci ha imbavagliato l’espressività, lo avete notato?

Se è vero come dicono che dovremo utilizzare a lungo questi dispositivi così come le norme di distanziamento sociale, dovremo da qui in poi sviluppare nuovi sistemi di studio e interpretazione dell’espressività e della prossemica.

Comunque. Io me ne stavo lì descritta come sopra, in evidente imbarazzo generato dallo sguardo persistente che non riuscivo ad interpretare e dalla consapevolezza di poter essere fraintesa. Insomma, non avevo una presenza scenica al top della gamma con la canna da pesca in mano e così sdrucita e trasandata nell’abbigliamento.

Quindi per pudore ho smesso di vocalizzare il mio richiamo “Uuuungaaaa”, limitandomi allo sbatacchiamento della canna da pesca “stuuump” – “stoop”, che mi sembrava meno compromettente da un punto di vista di giudizio sociale.

Ma siccome manco così quello sguardo cessava di scrutare, spazientita dalla sua invadenza ho tentato il mio recupero.

Mi sono fatta una risata sonora e ho indirizzato all’uomo mascherato la seguente esclamazione: “Non sono impazzita, sto solo richiamando il gatto”. Sperando così di strappare un sorriso.

Ma il sorriso si può vedere dietro al tessuto della mascherina? No.

E se non sei abbastanza vicino da poter osservare una qualunque reazione di espressività nella trasparenza emotiva di uno sguardo, non puoi nemmeno capire se il tuo tentativo è andato a buon fine o no.

L’uomo ha continuato a passeggiare e osservare privo della sua espressività che a quel punto mi ha ferita. L’incomprensione mi ha ferita. La mia e la sua. Unite in un significato che non ho saputo decodificare.

Certo che sembravo una matta. Come può diversamente apparire una conciata così che sbatacchia una canna da pesca per chiamare un gatto? Forse avrà pensato che la quarantena mi avesse dato al cervello, mentre per me quello è un gesto quotidiano e normale.

Sarebbe stato diverso se fossi stata meglio vestita, pettinata e truccata o se l’uomo in questione non avesse avuto il bavaglio? Sarebbe stato diverso se il nostro giudizio sui comportamenti altrui non fosse in questo momento così segnato dal dramma che stiamo vivendo?

Non lo saprò mai.

Forse lo imparerò nei mesi a venire, quando acquisirò ed acquisiremo nuove competenze interpretative sul mondo e sulla relazione con l’altro.

Comunque, alla fine, il gatto è tornato. Io ho avuto modo di riflettere sulla vicenda.

Un po’ ho riso di me e della pessima figura che ho fatto.

Un po’ ho usato questa storia per pensare al futuro e a ciò che ci aspetta da qui in poi, almeno finché questo bavaglio non ci verrà tolto.