L’informazione “ai tempi del Coronavirus”

L’informazione “ai tempi del Coronavirus”

di Andrea Dalla Longa

In questi giorni difficili e tristi viviamo un rapporto ambiguo e ambivalente con l’informazione.

Da un lato non ci staccheremo da giornali, TV, social eccetera – forse perché vorremmo disperatamente buone notizie –, dall’altro ci sentiamo affogare fra immagini, suoni, colori, parole e ritmi sempre più incalzanti e ossessivi.

Più che comunicazione assomiglia a un bombardamento: toni e immagini il più possibile impressionanti, acuti, parole in libertà (quanti “esperti” sono comparsi sui social e in TV a raccontarci tutto e il contrario di tutto? Quanto di esibizione, nei loro discorsi, e quanto di rigore scientifico?), le parole più grosse e allarmanti possibile, escluse poche lodevoli eccezioni, e dati statistici sparati a caso, senza spiegazioni, ma terrorizzanti.

Naturale che nei poveri spettatori restino impresse soprattutto le immagini più atroci (le bare caricate di notte sui camion dell’Esercito, le immagini rubate nei reparti di terapia intensiva, le interviste e i volti in primissimo piano dei parenti delle vittime, l’ossessivo urlo della sirena etc. etc.).

L’essenziale è “arrivare prima” degli altri, della concorrenza, supponendo nell’utente non già la capacità di analizzare e capire, ma soprattutto quella di commuoversi. Quindi insistere su quel che c’è di più forte, che va ben oltre la notizia di base.

Ecco, la comunicazione oggi è soprattutto ridondanza che non deve parlare alla ragione del pubblico ma, appunto, alle “trippe” (arrivando fino alle espressioni più oscene nel loro orrore, come “il record dei morti” o gli accenni agli “untori”, parola diventata non simbolo di abominio ma di uso comune, e ancora i toni e il linguaggio presi a prestito dal codice bellico…guerra, resistenza, ritirata, assalto etc….o, ancora, la pubblicità che prende a pretesto la lotta al Coronavirus per reclamizzare supermarket e assicurazioni. L’ostentato sfruttamento dell’epidemia da parte dei pubblicitari ormai ha qualcosa di pornografico).

Poi questi toni esasperati diventano, più o meno velocemente, la norma e allora per farsi sentire bisogna alzare la voce di più e ancora di più. Una rincorsa senza fine, col solo risultato di accentuare ulteriormente la distanza tra l’essenzialità della notizia e la ridondanza.

Forse aveva ragione Karl Popper che raccomandava per tutti gli addetti della comunicazione una patente abilitativa ed occorrerà una riflessione in questo senso di tutti i professionisti del settore.

Comunque, in questo contesto il Servizio pubblico invece di lasciarsi trascinare nell’ennesima “concorrenza imitativa” degli altri nella corsa a chi deve gridare più forte, avrebbe potuto aver molto da dire e da fare. Indichiamo qualche “pista” che si sarebbe potuta – da subito – seguire:

– In assoluto contribuire a moderare i toni della comunicazione strillata e ridondante, attenuare i colori violenti, cercare di fornire pacatamente (in un’epidemia non si gioca con l’ansia delle persone) materiali di riflessione, di analisi, di comprensione di una realtà così nuova, inedita, sconosciuta e sconvolgente. Insomma, raffreddare per aiutare a pensare.

– Quindi insegnare, per quanto possibile, a leggere i dati della pandemia. (Apriamo una piccola ma utile parentesi: capire i dati in termini semplici non è impresa impossibile; a questo proposito dare senza commenti alcune basilari “informazioni di servizio” quali, ad esempio, a) i criteri di ricerca (campione della popolazione, aree geografiche, percentuali etc.) b) il tasso di letalità del COVID-19 c) il suddetto tasso secondo le fasce di età d) la probabilità per una persona infetta di essere ricoverata in ospedale e) la percentuale dei ricoverati che debbono ricorrere alla terapia intensiva il tasso di mortalità tra i ricoverati, l’effetto delle misure di distanziamento e tanto altro ancora)

Pensiamo ai più deboli – ma non solo -, le persone anziane o sole, sommerse da cifre incongrue senza nessuna – o quasi – spiegazione. Insomma, meno superlativi, più immagini sobrie, essenziali, parole di moderazione (è bene ripeterlo: con la paura non si scherza), nessun indulgere all’effetto, al sensazionale, e dati “tradotti” semplici da capire, ma anche denuncia sistematica dei malfunzionamenti, delle storture, degli errori commessi in mala fede.

In questo spirito, ancora più concretamente, la RAI:

– Dovrebbe mettere le sue frequenze, la sua tecnologia, le sue professionalità a disposizione della comunicazione istituzionale (Presidenza della Repubblica, Presidenza del Consiglio, Parlamento, Ministero della Salute, Ministero delle Ministero delle Finanze etc. etc.) per garantire un flusso informativo ufficiale continuo;

A disposizione del Ministero dell’Istruzione per contribuire allo svolgimento dell’attività scolastica (come già adombrato in un comunicato di CGIL, CISL e UIL nazionali comparso nei primissimi giorni dell’epidemia);

A disposizione – articolata com’è per Regioni – delle realtà locali per le comunicazioni istituzionali e quelle pratiche (dalla voce della Regione e del Comune, alle informazioni di apertura dei negozi, sulle attività di volontariato o anche solo su chi può andare a fare la spesa per chi è impossibilitato a muoversi, o anche su dove si può contattare un idraulico e così via);

A disposizione per il sostegno psicologico e la gestione dello stress nella prospettiva di un rafforzamento generale del nostro sistema immunitario (se siamo di umore discreto e costruttivo saremo prede meno facili del virus, se siamo angosciati e intristiti perché indeboliti dalla paura avremo difese immunitarie più fragili e quindi potremmo ammalarci più facilmente.

Va da sé, nessuno intende trasformare la RAI nel megafono del Governo, ma si tratta di adattare l’Ente alla nuova domanda di informazione e servizi che viene dal pubblico, soprattutto all’avvio della famosa complicata Fase 2.

In caso di emergenze come questa, chiunque sia al governo deve poter usufruire di un canale istituzionale, perché appunto si tratta di qualcosa di “istituzionale” cioè di tutti.

La buona informazione passa dall’autorevolezza che si riafferma e si rinnova giorno per giorno. Il Servizio pubblico dovrà quindi avere un profilo di questo tipo. Non a caso gli ascolti della RAI – e soprattutto di Radio RAI, come ben documenta l’articolo di Vincenzo Vita sul Manifesto del 22/4– sono aumentati in questo periodo di circa il 25/30%. Non certo per la qualità del prodotto, ma per quello che la RAI ha rappresentato nel passato. C’è insomma la speranza inconscia che perlomeno la RAI “non ci freghi”.

È proprio così? La RAI è attrezzata per questa sfida?

Bene, questa auspicata sobrietà, questa idea di mettersi a disposizione della collettività, costituiscono un’ottima occasione: certo la RAI deve ristrutturarsi per trasformarsi da Servizio pubblico in Servizio al pubblico e non essere più il palcoscenico elettronico/digitale dei conduttori vedettes o dei politici di turno (vedi la quotidiana esibizione sulla TGR del grottesco Duo Fontana-Gallera) com’è stato fino ad ora.

La Rai siamo noi e deve lavorare per noi perché “Non è mai troppo tardi”.

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“Non è mai troppo tardi” era un corso di istruzione popolare presentato da Alberto Manzi, andato in onda dal 1960 al 1968, per il recupero dell’adulto analfabeta.

Era un programma televisivo della Rai che ebbe un importante ruolo sociale ed educativo, contribuendo all’unificazione culturale della nazione.